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Appunti di fotografia digitale - Parte 1
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Appunti di fotografia digitale - Parte 1

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 :: Appunti di fotografia digitale - Parte 1 ::

Sensori e pixel

Il sensore di una macchina fotografica digitale è il dispositivo adibito alla conversione dell'immagine ottica in informazione digitale, traducendo sostanzialmente l'energia luminosa (i fotoni) in segnale elettrico. Può essere considerato come una matrice (o griglia) di singole celle fotosensibili, ognuna delle quali raccoglie i fotoni e digitalizza quest'informazione in una quantità discreta che va da 0 (puro nero) a 255 (puro bianco). La matrice di fotosensori converte l'immagine in un mosaico di elementi chiamati pixel, l'unità minima di cui è composta un'immagine digitale, che hanno valori precisi di luminosità (luminanza) e colore (crominanza). Nel seguito della trattazione ci riferiremo per semplicità alle celle fotosensibili chiamandole pixel, pur non essendoci sempre un rapporto 1:1 ; alcune di esse sono infatti utilizzate per valutare i livelli di nero o per determinare il bilanciamento del bianco.

Le fotocamere compatte hanno sensori dai 5 megapixel in su, mentre le reflex superano tranquillamente i 12 megapixel. Non sarebbe del tutto corretto pensare che le seconde facciano foto migliori solo perché hanno più pixel, ma - come in molti altri casi - la differenza la fanno le dimensioni. Vediamo perché.

Abbiamo detto che i pixel "catturano" i fotoni, dunque più è brillante il punto di cui sono responsabili e più ne raccoglieranno. Dato però che c'è un limite alla loro capacità, potrebbero saturarsi senza poter rappresentare la reale luminosità della scena; avremo dunque una serie di pixel settati a 255 ma in overflow, il che fa di conseguenza diminuire il livello di dettaglio. Questo fenomeno prende il nome di "clipped highlights".
Se però decidiamo di ridurre il tempo di esposizione per limitare la saturazione potremo avere il problema inverso, ovvero alcuni pixel che rimangono a 0 solo perché non hanno fatto in tempo a raccogliere i pochi fotoni delle zone più scure. Si parla in questo caso di "clipped shadows".

Una reflex ha un sensore più grande di una compatta, dunque pixel più grandi, dunque maggiore superficie su cui raccogliere i fotoni. In questo modo aumentano le probabilità di catturarne qualcuno in più dalle zone in ombra e allo stesso tempo diminuisce il rischio di saturarsi con quelli provenienti dalle zone brillanti.

Riassumendo, la qualità delle immagini di una macchina fotografica dipendono strettamente dal numero e dalla dimensione dei pixel del suo sensore: più sono alti i loro valori, minore diventa il rumore e maggiore la gamma dinamica.

Rumore e sensibilità

Se esponessimo più volte lo stesso pixel alla stessa quantità di luce non otterremmo mai valori identici, ma piccole variazioni statistiche chiamate rumore. Ciò è dovuto al fatto che l'attività elettrica del sensore genera dei segnali che vanno ad interferire con la raccolta di informazioni, e che dipendono da alcuni fattori che vedremo poi. L'insieme di questi disturbi va a formare il cosiddetto piano rumore, una grandezza da tenere in considerazione dato che l'output di ogni pixel deve essergli maggiore per essere significativo (cioè distinguibile dal rumore stesso).

'Come si presenta il rumore:' Il rumore nelle immagini digitali si evidenzia in prevalenza come una certa granulosità o puntinatura monocromatica (luminance noise) e/o come puntini o macchioline colorate (chroma noise) evidenti soprattutto nelle aree uniformi come il cielo, o in linee scure con poco dettaglio.

Altri fattori da cui dipende il rumore sono:

  • la temperatura, più è alta e peggio è
  • la sensibilità, ovvero - in soldoni - di quanto viene amplificato l'output del sensore. Ad esempio un'immagine all'aperto richiede bassa sensibilità poiché le condizioni luminose sono già molto buone, mentre un soggetto poco illuminato o in movimento avrà bisogno di valori maggiori. Il problema è che con l'output viene amplificato anche il rumore, da cui il classico effetto di granulosità se si esagera.
    Il livello di sensibilità alla luce delle macchine fotografiche digitali è espresso con la scala ISO, dove "ISO 100" è generalmente il valore di default (in alcuni casi anche 50). La sensibilità può essere aumentata a 200, 400, 800, ... alcune reflex arrivano e superano i 3200
  • la dimensione dei pixel, motivo per cui il piano rumore della macchine digitali compatte è molto maggiore di quello delle reflex (che hanno pixel più grandi)
  • la tecnologia con cui sono costruiti i sensori
  • gli algoritmi di riduzione del rumore (se) utilizzati
  • il tempo di esposizione, che se supera il secondo o due può generare il cosiddetto "stuck pixel noise" (o "hot pixel noise"), ovvero una serie di puntini colorati leggermenti più grandi di un pixel che costellano l'immagine. Ecco un esempio:

Alcuni accorgimenti possono ridurre il fenomeno del rumore.
1. Selezionare il valore ISO più basso possibile. Usando il treppiede si possono impostare tempi lunghi e grandi aperture.
2. Tenere la fotocamera spenta e al fresco fino al momento della ripresa per non riscaldare il sensore.
3. Usare una reflex digitale dotata di sensore di grandi dimensioni. Una dSLR con sensore "full frame" a ISO 1600 produce un rumore paragonabile a quello di una compatta a ISO 100.
4. La compressione, tipica del formato JPEG, può aumentare il rumore nell'immagine. Nei casi in cui sia necessario minimizzare il rumore in fase di ripresa, un formato non compresso rimane la scelta obbligata.


Foto con e senza rumore

Diaframma

Il diaframma è il meccanismo che consente di regolare la quantità di luce che colpisce il sensore cambiando il suo diametro di apertura.

Quando è tutto aperto si ha massima luminosità ma peggior definizione e minor profondità di campo (che è la distanza dall'obiettivo entro cui gli oggetti sono a fuoco), mentre man mano che si chiude si migliora la nitidezza ma si ottiene un'immagine più scura. Da quanto detto possiamo ricavare che il diaframma influenza anche la messa a fuoco dei soggetti.

L'apertura del diaframma si può regolare entro una scala di valori detti stop o f-stop, calcolati come il rapporto tra la lunghezza focale dell'obiettivo (la distanza tra la lente e l'area su cui si focalizza) e il diametro dell'apertura. Questa scala è stata standardizzata con i seguenti valori, presentati in ordine decrescente di ampiezza (e dunque di luminosità):

f/1 f/1,4 f/2 f/2,8 f/4 f/5,6 f/8 f/11 f/16 f/22 f/32 f/45 f/64

Tempo di esposizione

Il tempo di esposizione o tempo di scatto indica l'intervallo di tempo in cui il sensore rimane esposto alla luce, dunque più è alto il suo valore e più l'immagine è chiara. Si può ottenere e configurare questa proprietà regolando la velocità di apertura e chiusura di un otturatore meccanico posto tra l'obiettivo e il sensore, oppure intervenendo sui tempi di accensione e spegnimento dei fotodiodi collegati ai pixel.

Generalmente i tempi di esposizione sono espressi come frazioni di secondo, con valori scelti in modo che ognuno sia il doppio del precedente:

1/1000 1/500 1/250 1/125 1/60 1/30 1/15 1/8 1/4 1/2

Ovviamente si possono avere anche tempi superiori al secondo, per convenzione multipli di 2 (1, 2, 4, 8, ...). E' da notare che ad ogni passaggio verso destra la quantità di luce raccolta raddoppia.

Non esiste un tempo di esposizione ottimale, dipende dalla situazione; va infatti considerato che per un soggetto in movimento il suo valore dovrebbe essere piuttosto basso o la foto uscirebbe mossa. Ecco una splendida gif chiarificatrice offerta da wikipedia:

Perchè le foto non vengano mosse un tempo di esposizione di almeno 1/60 è sufficiente nella maggior parte delle situazioni, a patto che non si stia usando lo zoom; in quest'ultimo caso il suo valore dovrà diminuire, ad esempio impostando 1/125 se stiamo usando uno zoom di 3x. Per soggetti in movimento come ciclisti o corridori è opportuno utilizzare tempi di 1/125 o inferiori, mentre per oggetti che si muovono a grande velocità come le automobili o i treni è consigliabile un valore da 1/500 in giù.
La regola del pollice per evitare che una foto esca mossa per colpa del fotografo consiste nell'usare un tempo inferiore al reciproco della lunghezza focale in uso. Se la lunghezza focale è di 200 mm, allora il tempo di sicurezza minimo è 1/200. Tutte le considerazioni relative alla ripresa di soggetti in movimento restano tuttavia valide. In particolare, un essere umano "normale" può essere ripreso con un tempo di 1/125, mentre per un bambino vivace è meglio non salire troppo sopra 1/250. Per fotografare Cthulhu è consigliato NON guardare quello che si sta facendo, pena la perdita di sanità mentale.

Esposizione

Abbiamo visto che sia la regolazione dell'apertura del diaframma che i tempi di scatto condizionano la quantità di luce ricevuta dal sensore, ora definiamo questa grandezza esposizione dell'immagine e la rappresentiamo con una scala di valori discreti chiamata EV (Exposition Value) che tengono conto di entrambi i fattori. Per la cronaca, esiste anche una seconda scala chiamata LV (Light Value) che considera anche la sensibilità ISO ed è un indice della luminanza della scena.

Il valore "EV 0" è dato dalla combinazione di un'apertura del diaframma di f/1 e da un secondo di tempo di esposizione (per avere un "LV 0" bisognerebbe avere anche un "ISO 100"). Ogni volta che si dimezza la quantità di luce raccolta dal sensore (raddoppiando il tempo di scatto o dimezzando l'apertura) l'EV aumenta di 1; in generale potremo dire che bisogna scattare con valori EV alti solo quando si è in condizioni di elevata luminosità, o si rischierebbe una sovraesposizione.

Da quanto detto finora possiamo dedurre che una stessa EV si può ottenere con un'ampia varietà di combinazioni di apertura del diaframma e velocità di scatto (e sensibilità); potremo quindi realizzare foto più o meno nitide dello stesso soggetto mantenendo inalterata la luminosità.

Inutile dire quanto sia difficoltosa la scelta della corretta esposizione per una scena. Molte fotocamere dispongono ormai di uno strumento di misurazione automatica, l'esposimetro, che imposta un valore di EV in base alla quantità di luce media rilevata. Possono essere sia interni che esterni, anche se questi ultimi sono più precisi e affidabili dato che possono lavorare sulla luce incidente l'oggetto e non solo su quella riflessa.

Esistono situazioni note in cui gli exposition value calcolati dagli esposimetri interni risultano falsate:

  • foto in spiaggia o in montagna, dove il riflesso del sole sull'acqua o sulla neve fa percepire alla macchina più luce di quanta in realtà serva per illuminare il soggetto; di conseguenza la fotocamera imposterà tempi di scatto molto brevi producendo immagini scure
  • foto con sfondo scuro e soggetto sufficientemente illuminato, interpretate dal sensore come un ambiente in ombra da compensare mantenendo alti i tempi di scatto. In questo caso si ottengono foto mosse e/o slavate

Fortunatamente esistono diverse soluzioni a questi problemi:

  1. scattare le foto in modalità "mare" o "montagna", una funzionalità presente in molte fotocamere e che adatta il calcolo dell'esposizione a queste condizioni ambientali
  2. zoomare sul soggetto su cui si vuole che sia calcola l'esposizione, premere per metà il pulsante di scatto così che tale calcolo venga effettuato, zoomare indietro riportando la visuale all'inquadratura desiderata sempre mantenendo semipremuto il tasto di scatto e premerlo infine del tutto
  3. intervenendo manualmente sugli exposition value, portandoli ad esempio a +1 per quanto riguarda le foto in spiaggia o con la neve, così che passi il doppio della luce

Immagini raw

Al contrario delle immagini a cui siamo abituati (JPG, GIF, TIFF, ...), raw non è una sigla ma l'esatta traduzione del termine inglese "grezzo". Un'immagine raw contiene le informazioni originali così come sono state trasmesse dal sensore della fotocamera, senza che siano in alcun modo compresse o processate; ogni pixel conterrà dunque l'informazione di un unico colore (il rosso il verde o il blu), da cui il tipico aspetto a "mosaico" di immagini di questo tipo.
La conversione nei formati comuni prevede diversi passaggi (demosaicing, bilanciamento del bianco, applicazione di una curva tonale, impostazione della profondità di colore, ...), che essendo applicati manualmente a partire da dati "non contaminati" dalla fotocamera permetteranno di imprimere alla foto la resa desiderata.

Il loro principale svantaggio è che ogni produttore di fotocamere (e addirittura modelli di uno stesso produttore) ha il suo formato raw proprietario, utilizzabile al meglio solo con software dedicato.
Altri due svantaggi sono le dimensioni maggiori rispetto ai JPEG (ma non ai TIFF), e tempi più lunghi di elaborazione e scrittura.

Immagini JPEG

Il formato JPEG (Joint Photographic Experts Group) è quello più diffuso per le immagini digitali per due motivi: è compatibile con tutti i browser, viewer e programmi di fotoritocco, ma soprattutto consente di comprimere in modo consistente le immagini senza perdere troppo in qualità.

Vediamo come agisce. Dato che l'occhio è più sensibile ai dettagli che ai colori, e che tra i primi nota di più quelli vistosi, come prima operazione la codifica JPEG riorganizza l'immagine distinguendo tra informazioni del colore e informazioni dei dettagli. A questo punto suddivide l'immagine in tanti quadrati da 8 pixel per lato, così da applicare in modo indipendente su ognuno di essi la compressione. Quest'ultima è di tipo lossy, cioè con perdita di dati, e per i motivi che abbiamo spiegato prima sarà più intensa sulle informazioni che riguardano il colore e i dettagli più fini.

L'intensità dell'algoritmo di compressione è personalizzabile, così che l'utente possa trovare il giusto compromesso tra dimensione del file e qualità dell'immagine. Una foto JPEG con qualità del 100% ha dimensioni fino a sei volte più piccole dell'originale non compressa, ma la qualità rimane praticamente inalterata. Scendendo a 80% la dimensione si riduce di 10 volte rispetto l'originale e l'immagine rimane comunque buona, con qualche deterioramento sui bordi dei soggetti. E così via.
La maggior parte delle fotocamere digitali permettono di scegliere tra tre livelli di compressione, corrispondenti alle seguenti tre fasce: basic (qualità minore ma alta compressione), normal (quella di default) e fine (miglior qualità con minor compressione).

Ultima osservazione, quando si sta lavorando su un'immagine è meglio salvarla in formato non compresso (ad esempio il TIFF) e non in JPEG, o la qualità diminuirebbe ad ogni nuova compressione anche se la foto non è stata modificata. La codifica dovrebbe essere applicata solo a elaborazione ultimata.

Bit

Concludiamo questa prima parte di appunti di fotografia digitale con una breve parentesi.
Sappiamo tutti benissimo che i bit sono l'unità fondamentale di informazione, e che possono avere due soli valori: 1 o 0. Con un solo bit si può dunque rappresentare il bianco o il nero, con due bit anche due toni di grigio, mentre già con 8 bit si arriva a poter individuare 256 tonalità possibili (da 0 a 255).

La codifica più comune delle immagini JPEG prevede 24 bit per pixel, 8 per ciascuno dei tre canali di colore (rosso, verde, blu), per un totale di 16,7 milioni tonalità possibili.

Vedremo nella prossima parte della guida che la visione umana, al contrario dei sensori delle fotocamere, noterà meglio i dettagli delle zone in ombra che quelli più esposti. Una codifica dell'immagine che tiene conto di questa proprietà è quella a 32 bit con virgola mobile, dove avremo 1 bit per il segno, 23 per la mantissa e 8 per l'esponente. In questo modo riusciremo a rappresentare un numero infinito di toni tra lo 0 e l'1, circa 8 milioni tra l'1 e il 2 e via via a scalare fino ad arrivare ai 128 toni che separano il livello 65534 dal 65535. Siamo quindi in linea con la percezione dell'occhio: più ricettività per i toni scuri, e viceversa.


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